Prefazione del Maestro Piero Rattalino

Maestro Piero Rattalino

PRESENTAZIONE

I primi metodi per suonare il pianoforte, che vengono pubblicati alla fine del Settecento e nella prima decade dell’Ottocento, sono impostati non solo sulla completezza ma anche sulla progressività dell’insegnamento. Lo schema quasi invariabilmente seguito prevede queste successive fasi propedeutiche:
a) apprendimento della notazione,
b) collocazione della notazione sulla tastiera,
c) posizione del corpo davanti alla tastiera,
d) altezza della sedia,
e) atteggiamento del braccio, della mano e delle dita,
f) azione delle dita.
Retrobraccio e avambraccio formano un angolo di 90 gradi, avambraccio e mano di 180 gradi, le dita sono “incoppate” e la loro punta colpisce il tasto verticalmente. Braccio e mano portano a spasso le dita sulla tastiera senza svolgere alcun ruolo attivo nel movimento del tasto, che è maneggiato dalle sole dita. Con queste premesse si procede poi a rendere le dita indipendenti e tutte ugualmente abili, a studiare le scale, gli arpeggi, le note doppie, le ottave, gli accordi, l’esecuzione polifonica.
Tutto ciò è senza dubbio funzionale al meccanica del pianoforte classico, detto oggi fortepiano. Lo è solo in parte al pianoforte romantico, di meccanica più pesante, lo è in modo quasi insignificante per il pianoforte moderno, in cui la resistenza del tasto al tocco è ancora più alta. Far scendere il tasto significa oggi muovere un peso di circa 40 grammi. Una composizione di media durata e di media difficoltà comporta circa 10.000 note, cioè comporta lo spostamento di quattro quintali. Bastano per ciò le dita? Già Chopin aveva negato il concetto di indipendenza e uguaglianza delle dita e aveva affermato che nella produzione del suono avevano una funzione attiva, oltre alle dita, la mano e il braccio. E con ciò la tecnica classica diventava obsoleta.
Sua maestà il dito era stato dunque spodestato: era diventato il terminale di un sistema in cui agivano come motori, oltre ai muscoli della mano e dell’avambraccio che muovono le dita, i muscoli del retrobraccio, della spalla e del busto. Ma la didattica tardò molto a prender atto di ciò e puntò al rafforzamento delle dita, lasciando che l’ampliamento della tecnica nel senso indicato da Chopin fosse opera individuale dell’esecutore, stimolato in ciò, si diceva, da esigenze espressive. Solo dalla fine dell’Ottocento ci si rese conto del fatto che la tecnica classica era un aspetto storico della tecnica e che non poteva bastare per l’addestramento dell’aspirante pianista. I nuovi criteri diedero origine a nuovi metodi. Ma i nuovi metodi, non meno dei vecchi, cercarono di basarsi su verità scientifiche, o ritenute tali, senza tener conto dell’età e della psicologia del discente.
Elena Bidoli dichiara invece che il suo metodo mira a fare “imparare il pianoforte dai 2 anni”. Il metodo Bidoli parte da un dato tradizionalissimo: le cinque note. Ma la collocazione della notazione sulla tastiera è resa molto più agevole da apprendere mediante i colori: ognuna delle sette note della scala di Do maggiore è colorata in modo diverso e riproduce un viso, bello tondo e pacioccone. Il bambino di due anni non riconosce dei segni ma dei personaggi e si affeziona subito a “signor Do” e al “signor Re”. Le note col loro colore vengono scritte sul pentagramma (la casa in cui abitano), i tasti sono a loro volta contraddistinti da bollini colorati, corrispondenti alle note, e colorate sono le unghie del bambino. Comincia così, fantasiosamente, il cammino dell’addestramento, che prosegue a un passetto alla volta senza mai forzare la tensione della mano e delle dita (nel legato non si oltrepassa l’intervallo di quinta) e anche senza nessuna istruzione sul come atteggiare e dita e mano.
La tenuta della mano, la cosiddetta “impostazione”, articolo di fede della didattica classica, non è più un punto di partenza e un cardine della tecnica, ma è un punto di arrivo. Si comincia con le note ribattute, che il più delle volte il bambino esegue istintivamente tenendo il dito disteso, non curvato e arrotondato, con un angolo di 90 gradi col palmo della mano e agendo con l’intero braccio, come se si zappasse. Può anche iniziare in un altro modo, s’intende, ma è importante che il bambino segua il suo istinto e che arrivi poi progressivamente a variare il tocco. Zappare nella tastiera significa in realtà capire l’importanza del peso del braccio e l’opportunità di cessare la spinta quando il tasto è stato colpito: che è il principio della tecnica postclassica.
Altra caratteristica del Metodo Bidoli è la spiegazione della teoria attraverso le fiabe, popolate da personaggi (Mozart in primis) e da animaletti parlanti, fiabe non raccontate ma recitate dall’insegnante, che si adopera a dare voce diversa ai diversi personaggi. Le lezioni sono sia individuali che collettive, ed è richiesta la presenza di un genitore.
Tutto ciò richiede molto impegno sia da parte dell’insegnante che dell’allievo e della sua famiglia. Ma non si tratta semplicemente di imparare a maneggiare un attrezzo: si tratta di vedere nella musica una funzione generale dell’educazione, della formazione della personalità che, ci dicono i pedagogisti di oggi, è in ebollizione già a due anni. Se si procede con questa finalità l’impegno non sarà gravoso e il risultato compenserà ampiamente il lavoro svolto.

Piero Rattalino
Roma, giugno 2016

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